sabato 3 maggio 2014

Farmaci e genere. Importanza della differenza di genere nelle terapie farmacologiche.

Al giorno d'oggi nella sperimentazione clinica la specificità delle donne non è adeguatamente considerata, sia per l'aspetto quantitativo (il numero di donne arruolate nei trial clinici è sempre inferiore rispetto al numero di uomini) sia per quello qualitativo (i dati non vengono analizzati in funzione della differenza di genere).
Nonostante vi siano numerosi studi su sperimentazioni cliniche per patologie femminili, quali ad esempio il carcinoma mammario e il controllo dell’osteoporosi, per quello che riguarda la sperimentazione di patologie comuni ad entrambi i sessi, le donne sono quasi sempre al di sotto del limite statistico.
La maggior parte delle sperimentazioni non prevede una differenza tra maschi e femmine al momento dell’arruolamento e dell’analisi dei dati, quindi la percentuale di donne reclutate rimane bassa (inappropriatezza rappresentativa delle donne).
Inoltre il dosaggio dei farmaci è in genere misurato su un individuo di sesso maschile di media corporatura (peso di 70 kg), e la donna è considerata solo una variazione del modello maschile. Sebbene il progredire delle conoscienze scientifiche abbia portato ad una maggiore consapevolezza della specificità del corpo femminile, i protocolli di sperimentazione non sono stati ancora adeguati. Le donne sono generalmente incluse, ove lo siano, solo nella fase III della sperimentazione clinica, ma non nella fase I e nella fase II, che sono di fondamentale importanza per stabilire il dosaggio e la sicurezza nell’uso di farmaci. Pertanto, la mancanza di studi specifici sulle donne, soprattutto nelle fasi precoci della ricerca, non consente di misurare la reale efficacia e l'adeguata sicurezza dei farmaci.

Addirittuara negli anni settanta furono emanate indicazioni che prevedevano l’esclusione delle donne da studi clinici allo scopo di preservare la salute del possibile nascituro, in seguito al verificarsi di casi drammatici di morte fetale e gravi danni a neonati a causa di sperimentazioni indiscriminate e giustificando il divieto con la mancanza di conoscenza dei dati sulla teratogenicità. Le donne in età fertile potevano partecipare agli studi di fase II e III solo se erano state raccolte informazioni sufficienti sulla sicurezza e sull'efficacia. Solo nel 1988 si registra un cambiamento nell’orientamento della FDA che, con la pubblicazione di "Guideline for the Format and Content of the Clinical and Statistical Sections of New Drug Application", rilevava la sottorappresentazione femminile nella sperimentazione farmacologica e raccomandava l’analisi di dati differenziati per sesso nei trials clinici. La situazione però è tuttaltro che sulla buona strada, infatti l'EMEA (European Medicines Agency) nel 2005 emana il "Guideline Gender Considerations in the Conduct of Clinical Trials" in cui si dichiara esplicitamente la non necessità dell'elaborazione di specifiche linee guida sulla sperimentazione farmacologica sulle donne, ritenendo sufficienti le linee guida internazionali. Invece, nel 2012, l'Health Canada, l'ananlogo canadese dell'agenzia del farmaco, ha sottoscritto il "Considerations for Inclusion of Women in Clinical Trials and Analysis of Data by Sex", in cui si affermano importanti principi. In particolare, si dichiara che la sperimentazione di genere vada applicata non solo ai prodotti farmaceutici, ma anche ai farmaci biologici, alle terapie genetiche, ai prodotti naturali e ai dispositivi medici, incluse nuove sostanze attive, nuove formulazioni, nuovi usi, nuove indicazioni e associazioni di prodotti. Inoltre, si prende in considerazione l'importanza di coinvolgere negli studi clinici le donne di tutte le età (anche adolescenti di 12-18 anni), e di valutare le variabili relative alla gravidanza, all’allattamento al seno e ai partner sessuali di soggetti arruolati in studi clinici. Infine, si sensibilizzano gli sponsor affinché, quando appropriato, siano condotti studi preclinici e di farmacocinetica per identificare potenziali differenze di genere durante lo sviluppo di un farmaco, specialmente in aree terapeutiche come quella cardiovascolare. Ultimamente anche l'AIFA ha intrapeso timide politiche "gender-oriented", attraverso alcune iniziative di editoriali (il 'Libro Verde' sulla salute della donna e 'Farmaci e gravidanza') e istituendo un Working Group gender-oriented che ha il compito di interessarsi delle problematiche connesse alla farmacologia di genere.


La gender blindness in farmacologia è spesso giustificata con il fatto che la maggiore variabilità di risposta farmacologica delle donne implica la necessità di un numero più elevato di gruppi sperimentali e di un ampliamento del campione di soggetti in sperimentazione, cosa che comporta un aumento dei tempi, e soprattutto, una lievitazione dei costi della ricerca. La cosiddetta “variabilità femminile”, che è una chiara espressione della complessità della realtà clinica, dipende in parte dalle variazioni ormonali fisiologiche, come quelle che si verificano in funzione dell’età, del ciclo mestruale, della gravidanza e del puerperio, ed è quindi, più in generale, condizionata dalle fluttuazioni ormonali. A queste variazioni, non eliminabili in alcun modo, si uniscono quelle, mai considerate a sufficienza, quali gli effetti legati all’uso delle associazioni estro-progestiniche, che sono impiegate estensivamente nelle donne, sia come contraccettivi, sia come terapia ormonale sostitutiva in post-menopausa. Il trattamento con queste associazioni produce la differenziazione delle donne in più gruppi, di cui sono praticamente ignote le effettive risposte di efficacia o di sicurezza e, ancor più, le possibilità di interazioni farmacologiche. Per questi motivi la donna è stata considerata un soggetto “difficile” per la sperimentazione, in quanto la sopracitata variabilità non consente di ottenere “dati puliti” dai trials misti per sesso, e diminuisce quindi la rilevanza statistica della sperimentazione. Al pregiudizio di genere si aggiunge poi la reticenza delle donne a partecipare alle sperimentazioni cliniche, dovuta al timore di ledere la propria capacità riproduttiva (principalmente a causa dai potenziali effetti teratogeni dei
medicamenti). Nell’ambito della questione etica della sperimentazione farmacologica sulle donne in età fertile si registrano posizioni diverse. Alcuni ritengono che laddove la sperimentazione clinica possa anche solo in modo ipotetico mettere in pericolo la vita o la salute del feto sia eticamente consigliabile alle donne in età fertile di non partecipare a studi clinici (gli stessi integralisti che sono contro l'aborto probabilmente). Altri, invece, sostengono che la sperimentazione sia eticamente prioritaria, nel bilanciamento tra possibili danni al feto e prevedibili benefici diretti sulla donna e in senso lato sulla società. In questa prospettiva, l’esclusione aprioristica delle donne in età fertile dalla sperimentazione produce ingiustizia nella ricerca biomedica, poichè le donne non avrebbero le stesse opportunità degli uomini nell’ambito della cura di determinate malattie.
In conclusione doveroso ribadire che se un farmaco, oppure un dispositivo medico-chirurgico non è espressamente testato sulle donne, non è possibile predirne i reali risultati di efficacia e di sicurezza, con la conseguenza di non avere a disposizione le terapie più appropriate, e incorrere così in problemi di tossicità. È quindi essenziale sensibilizzare l’industria farmaceutica alla problematica di genere, così che al momento dei trial clinici la presenza delle donne e i dati su di esse risultino più completi ed affidabili. Un corretto disegno sperimentale e una più ampia consapevolezza delle differenze di genere potrà suggerire approcci terapeutici più appropriati in funzione della complessità della vita della donna, e contribuire a promuovere politiche di tutela della salute che tengano conto delle differenze di genere, proponendosi come obiettivo finale quello di migliorare lo stato di salute sia delle donne che degli uomini.

Nessun commento:

Posta un commento